Nonostante segnali così evidenti dell’imperfezione della natura, continuiamo, con psicopatica ostinazione, a cercare di convincerci che invece non esista cosa più perfetta della natura stessa.
Ad uno di questi segnali, ho assistito da “spettatore” questa mattina.
Un genitore che mette il coperchio alla bara del proprio figlio, è l’aborto più insensato che la natura possa produrre.
Un inceppo meccanico negli ingranaggi della vita a cui non si riesce a dare una logica. Una catastrofe umana nel piccolo di una famiglia che non ha ragione.
Dover celebrare il funerale del proprio figlio, che abbia nove anni o cinquantanove anni, è un dolore per un padre, per una madre, a cui non ci si farà mai l’abitudine. Un vuoto nella propria anima in cui ci si precipita in modo perpetuo. Un coltello che taglia inesorabile la carne viva ogni giorno che ti resta da vivere ma che vivrai da morto.
Già, perché se il figlio muore una volta sola, un genitore muore, da quel giorno, ogni giorno di quello che resta della sua vita, se vita la si può ancora chiamare. Perché quando la morte diventa liberazione dal dolore, la vita stessa non può essere chiamata più vita.
Non c’è attenuazione del dolore quando l’ultima immagine di tuo figlio sarà per sempre una bara bianca. Su quella che ho visto io stamattina c’era un berretto rosso da vigile del fuoco.
Fino a quando ha potuto, sognava di fare il pompiere Alessandro, adesso di quel sogno, morto con lui a nove anni, non resta che un berretto rosso da pompiere sulla sua bara bianca.
Nella piccola cappella di paese poi, si consuma l’ultima ipocrita sceneggiata. Il parroco lo raccomanda al Signore, pregandolo di perdonare Alessandro per i suoi peccati. A nove anni, l’unico peccato che Alessandro ha potuto fare, è morire, subendo il torto da quel Dio che nove anni prima qualcuno ha ringraziato per la sua nascita.